EDITORIALE
Dal racconto Il fotografo, inedito del luglio 1982 di Beppe Viola,
dedicato al fotogiornalista francese Jean Pierre Prével
Un sacco di venticinque chili del valore di alcuni milioni viene
sollevato con una mano sola e sistemato sulla spalla destra
una trentina di volte il giorno; un buon contratto con la France
Press, tra le più importanti agenzie del mondo; quarant’anni
che sembrano trenta, centomila chilometri l’anno trascorsi
al volante, una casa in Bretagna e un repertorio di numeri da
cabaret, il migliore dei quali rimane quello di toccarsi la punta
del naso sfoderando la lingua più lunga di tutta la Francia. Più
o meno, Jean Pierre Prével si presenta così. Come contorno
offre un fisico abbondantemente oltre i cento chili, una allegria
contagiosa e almeno vent’anni di professione onorata da
premi (la miglior fotografia del Tour di non so quale anno) e da
scoop di valore mondiale. L’ultimo lo ha rimediato in occasione
dell’ammutinamento dell’equipaggio del France, l’ammiraglia
della flotta civile francese. Jean Pierre si imbarcò come turista
clandestino e per alcune settimane le sue fotografie, pubblicate
da tutti i giornali del mondo, raccontarono la vicenda a milioni
di persone. Trasmetteva le fotografia via telefono con un
meccanismo che mi ha illustrato tre volte e che ancora devo
capire, dopo averle sviluppate in gabinetto.
Jean Pierre è uno dei settanta-ottanta fotografi incrociati a
Bilbao nel corso dei Campionati del Mondo di calcio dove ne sono
stati convocati circa cinquecento. Con Jean Pierre si fa presto
a diventare amici, sempre che si sappia contare fino a dieci in
francese perché lui non conosce altra lingua. In realtà non gli
serve, avendo a disposizione unamimica degna della “Comédie”.
Abbiamo percorso insieme 1500 chilometri in automobile, su
e giù da Valladolid a Bilbao. Arrivavamo allo stadio quattro ore
prima dell’inizio della partita per dare tempo a Jean Pierre di
attrezzarsi, preparare il laboratorio e organizzare la spedizione
del materiale. Non aveva un minuto neanche per masticare
una salsiccia, e rimediavamo alla sera sostando a Burgos (
«È
un consiglio Michelin»
diceva) dove la soupe à l’onion risulta
puntualmente inferiore a quella preparata da sua moglie, sette
generazioni trascorse in cucina, specialità terrine, anatra e tutto
quanto fa trigliceridi e colesterolo.
«Nella mia fattoria
-diceva-
c’è sempre un buon piatto e due bicchieri di vin Bordeaux per gli
ultimi arrivati»
. Si è costruito la fattoria sgobbando con piacere,
frequentando Giscard d’Estaing e Bernard Hinault, rincorrendo
principi e banditi.
La sera in cui i giornalisti spagnoli ci invitarono per la cena nella
sala de prensa, Jean Pierre si presentò con unaMinolta tascabile
tanto per girare armato in ogni occasione.
«Non mi va di lavorare
in studio, anche se riconosco che i miei colleghi specialisti in quel
genere sono bravissimi. Però nell’attualità c’è più emozione. Vedi
-spiega- il segreto è saper prendere il posto giusto prima degli
altri e puntare come un cecchino il bersaglio. Devi capire subito
qual è la cosa più importante del teatro, un clic dura meno di un
secondo, è indispensabile prenderlo al volo. Per un cinereporter
è tutto più facile, in una sequenza cinematografica ci puoi infilare
una vita intera. La sintesi invece è un miracolo. Dipende tutto da
te. Senso giornalistico, intuizione e gusto, ecco cosa serve. Se
tu hai scattato cento rullini devi sapere dove hai sparato il colpo
migliore. Se non capisci questo, meglio cambiare mestiere»
.
L’ho visto a Valladolid farsi largo tra i colleghi a colpi d’anca e di
pancia quando lo sceicco del Kuwait decise di invadere il campo
di gioco. Il mio amico Jean Pierre era così vicino al protagonista
di quella assurda vicenda che avevo quasi l’impressione fosse
lui a dirigere il tutto.
In una partita di calcio, il suo bottino è di cinque rulli in bianconero
e due a colori. Porta sempre in macchina una valigia metallica
contenente un laboratorio per sviluppare, stampare e inoltre
un piccolo impianto che gli può far trasmettere via telefono. Gli
ho chiesto se avesse mai pensato di lasciare la France Presse
per mettersi in proprio, lui mi ha risposto che ormai ha sposato
l’agenzia ed è un matrimonio felice.
È vicedirettore della sede di Rennes, dopo aver inventato la sede
in Provenza e dopo aver fatto capire ai capoccioni di Parigi che
una foto di provincia può essere promossa a livello internazionale.
I primi servizi importanti nel 1970 con la guerra in Giordania, ma
la grinta e l’entusiasmo sono rimasti quelli del primo giorno:
ecco perché non è mai stanco. Mai avuto paura Jean Pierre?
«Sì,
moltissime volte mi sono cacciato in guai terribili. Per fortuna
me ne sono accorto dopo, a pericolo scongiurato. Quando sono
in camera oscura, osservo le fotografie e mi dico: ma Jean
Pierre, tu hai fatto questo? Allora sei matto!»
.
Le fotografie che ricorda con affetto sono quelle mai pubblicate,
la migliore quella che cerca di fare ogni giorno. Un’altra ragione
per cui non tradirà mai l’agenzia è che qui gli è consentito
scegliere personalmente il materiale da inviare nel mondo,
un lavoro delicato da autentico inviato speciale. Jean Pierre
è giornalista, scrive pezzi per corredare il servizio anche se i
reportage migliori sono quelli che viaggiano senza parole.
«È
assolutamente folle
-ripete-
considerare i fotografi giornalisti
diversi. Semmai dovrebbe essere il contrario»
.
Il grande fotoreporter deve essere informato, conoscere
esattamente gli aspetti del servizio, sapere cosa tirarne fuori.
Jean Pierre Prével porta in giro il suo quintale con gran classe,
è rimasto giovane e allegro perché ama il suo lavoro ed è ogni
giorno pronto a partire.
P.S. Il contenuto del sacco di Jean Pierre è il seguente: 3 Nikon
F3 con motore; obiettivi: 24mm f/2,8, 35mm f/1,5, 50mm f/1,4,
105mm f/2,5, 180mm f/2,8, 300mm f/4,5, 300mm f/2,8, zoom 80-
200mm f/4; 2 flash Rollei RE 36; FilmBlack and White Kodak 400
ASA; Color Ektachrome 200 ASA.